I figli dei Re

 

Karen Blixen

 

I figli dei Re

C’era una volta, tanti anni fa - se in Persia o in India non so bene -, un sovrano potente, malvagio e crudele che aveva messo a ferro e fuoco tutti i paesi circostanti. Il suo visir era ancora più sanguinario e falso di lui, e si chiamava Agar. Dopo aver vinto e sottomesso tutte le popolazioni vicine, il despota si guardò intorno e si sovvenne che lontano, lontano tra le montagne c’erano alcuni barbari staterelli che non aveva ancora conquistato; non avrebbe più dormito sonni tranquilli fino a che non fossero stati asserviti alla sua possente volontà. D’altra parte, intraprendere una campagna su quei monti impervi gli avrebbe arrecato perdite e affanni, ed egli rimase a lungo incerto se impegnarsi a inviare i suoi eserciti fin lassù. Intervenne Agar, che gli disse: «Non sacrificare tante vite umane, tanti cavalli e tante armi per combattere quelle tribù selvagge: lascia che si annientino a vicenda. Ho escogitato un magnifico stratagemma per seminare tra loro la discordia e l’astio, così che una tribù divorerà l’altra e alla fine tu potrai arraffare a bell’agio ciò che ne sarà rimasto». Il sovrano gli domandò come doveva fare. «Bene,» continuò Agar «ora te lo dirò. Devi inviare un messaggio ad ogni re delle tribù montane, nel quale dichiarerai che non solo non intendi fare loro guerra, ma che addirittura vuoi stringere un’alleanza. A suggello di questo patto inviterai nella tua città i primogeniti dei re di tutte le tribù e celebrerai il loro arrivo con grandi festeggiamenti; saranno assai fieri di mandare i loro figli al tuo cospetto e farli partecipare al convito. Ma durante i festeggiamenti accadrà un imprevisto: quando i principi delle montagne si presenteranno con i loro seguiti davanti al tuo trono, dal luogo in cui si troveranno questi ospiti e i loro accompagnatori partirà una freccia; sarà scoccata verso di te, ma andrà a conficcarsi nella parete alle tue spalle o nel tappeto davanti ai tuoi piedi. A questo punto, colmo di indignazione, griderai al tradimento e annuncerai che il tuo senso di giustizia ti impone di vendicarti. Esigerai che i principi ti consegnino il colpevole perché tu possa farlo mettere a morte, e aggiungerai che se invece ostacoleranno la giustizia saranno tutti condannati. Poiché ognuno, nel profondo del proprio cuore, saprà di non aver scagliato la freccia, nessuno sarà disposto ad addossarsi la responsabilità di quel gesto, e pur di aver salva la vita si incolperanno tutti a vicenda, nella discordia più totale. Allora, sia che tu mantenga la parola e li faccia uccidere dal primo all’ultimo, sia che ne scelga uno a caso, ovvero decida di tenerli tutti in ostaggio in attesa che i re si accordino sul loro destino, avrai cagionato un vantaggioso dissidio e rotto l’armonia che regnava tra le tribù: una faida seguirà l’altra, e quelle popolazioni ti risparmieranno la briga di annientarle, eliminandosi tra loro». Il potente sovrano meditò a lungo sulla proposta di Agar e infine l’approvò con entusiasmo. Ordinò ai suoi araldi di raggiungere le tribù delle montagne e di chiedere, proprio come aveva detto il visir, di mandare gli eredi al trono ai festeggiamenti e al banchetto organizzati a suggello dell’alleanza. Tutto andò come Agar aveva previsto; i re e i capi dei paesi montani considerarono quell’invito un onore e un omaggio, e ciascuno dotò il proprio giovane primogenito dei finimenti più belli e del seguito più folto che poté procurarsi, e lo inviò all’appuntamento. I principi si misero in viaggio contenti, fieri e curiosi di vedere la città di quel gran sovrano e tutto lo sfarzo di cui avevano sentito parlare ma che, relegati com’erano lassù tra i monti, non conoscevano. S’incontrarono alla spicciolata sui diversi valichi e poi, tutti insieme, fecero gli ultimi giorni di viaggio sulla strada maestra che portava alla città, parlando di come avrebbero dovuto comportarsi dinanzi alla magnificenza che li attendeva. Erano in tutto nove principi; il più anziano aveva sedici anni, il più giovane tredici. Ismail sapeva tutti i loro nomi, ma qui non è necessario elencarli; ne menzionerò soltanto due.

Il primo era Said, il figlio del più potente tra i re delle montagne: aveva il seguito più numeroso, le cavalcature più splendide, i migliori finimenti e le armi più belle. Ma soprattutto, tra i suoi compagni, spiccava per la sua avvenenza. I suoi genitori avevano atteso a lungo un erede, e questo unico figlio, avuto in età avanzata, era la loro gioia e il loro orgoglio. Era bellissimo, in sella aveva un portamento magnifico e sapeva maneggiare con maestria tutte le armi; inoltre era savio e risoluto, un erede al trono senza eguali nelle altre tribù. Per assicurare un futuro alla nobile stirpe che lui solo rappresentava, sua madre si era data premura di scegliergli una moglie, e poiché la fama della bellezza, del coraggio e del giudizio del giovane si era propagata per ogni dove, era riuscita a trovare un ottimo partito. Una vergine di sangue reale, con una dote più che regale, aspettava in un paese vicino che arrivasse il momento giusto per celebrare le nozze. Era naturale che Said, in groppa al suo danzante destriero dal morso d’argento e la sella ricamata d’oro, i fianchi guarniti da una cintura tempestata di pietre preziose che reggeva una spada di gran pregio, si trovasse in testa al corteo dei giovani principi, e che gli altri lo stessero ad ascoltare, attenendosi ai suoi consigli sul modo migliore di far onore al loro popolo una volta introdotti al cospetto di quel potente sovrano.

Chiudeva il corteo dei cavalieri un giovinetto di nome Mira. Era figlio del capo di una piccola tribù che viveva al nord, in una regione povera e desolata; aveva molti fratelli e i suoi genitori non avevano potuto spendere forti somme né per la sua educazione né per il suo equipaggiamento. Aveva un cavallo piccolo e tutt’altro che appariscente, col pelo lungo e sella e finimenti semplicissimi; lui indossava un mantello di montone e aveva una vecchia spada a lama corta dalla guaina assai modesta. Era anche il più giovane della schiera, un ragazzetto di campagna, inesperto e senza grandi attrattive. Suo padre aveva potuto farlo accompagnare solo da un qualche vecchio servitore, e infatti il ragazzo si teneva timidamente in disparte e parlava pochissimo, ma ascoltava a bocca aperta quando gli altri discutevano degli esercizi d’arme e del contegno da tenere per ben figurare nella grande città straniera. Era assai contento di far parte di quella spedizione, e si guardava intorno tra tutte le cose nuove che ogni giorno gli si presentavano per poterle descrivere ai suoi fratelli e ai suoi amici una volta tornato a casa.

I figli dei re varcarono a cavallo la porta della città e rimasero sbalorditi di fronte all’immensa ricchezza che c’era nelle strade e alle calorose ovazioni della folla; vennero condotti fino al palazzo reale. Fu un’accoglienza davvero fastosa, e i giovinetti stentavano a credere che un sovrano così potente volesse tributar loro tanto onore.

Tutto si svolse come Agar aveva architettato. Proprio nel momento in cui il sovrano riprendeva posto sul trono dopo aver terminato il discorso di benvenuto una freccia sibilò nell’aria e si conficcò vibrante nella parete a poco più d’una spanna dalla spalla del sovrano, dalla quale la porpora ricadeva in pieghe profonde. Fu evidente a ciascuno che quella freccia era stata scagliata dalla schiera degli ospiti, anche se in quel momento così solenne e commovente nessuno aveva notato esattamente da dove. Un gran trambusto si levò da ogni parte tra i cortigiani del sovrano, e l’aria prese a vibrare d’inquietudine e di tensione. Soltanto il sovrano rimase impassibile davanti al pericolo scampato, spaventevole nel suo corruccio. Il suo volto era scuro come il cielo prima di una tempesta e pareva baluginare di lampi sanguigni, ma egli non pronunziò una sola parola.

Allora si fece avanti Agar e si rivolse ai giovani principi con una voce che, pur tremula per la collera e lo sgomento, suonava assai melliflua. Era stata commessa un’azione scellerata, disse, un infido nemico si trovava nelle vicinanze del sovrano, e tutti i presenti avrebbero fatto bene a nascondere il volto inorriditi dinanzi a un tale misfatto. Ma egli si rendeva conto che i giovani principi venuti dal nord come ospiti del sovrano non dovevano essere tutti accusati di quell’orribile gesto: molti di loro, lo sapeva bene, erano nobili e generosi, i nuovi virgulti di stirpi cavalleresche, e avrebbero condannato più di ogni altro un tradimento ordito contro l’ospitalità del sovrano; il fatto che un loro compagno si fosse macchiato di una simile infamia li colmava di un orrore ancora più grande del suo e di quello del popolo intero. Il sovrano non aveva intenzione di accusarli tutti, giacché era sicuro che il loro senso dell’onore avrebbe fatto sì che gli consegnassero il colpevole senza esitare a mostrarsi senza macchia agli occhi del mondo. Esortò coloro che sapevano chi fosse il traditore a farsi avanti e a pronunziarne il nome.

Per tutta la durata del suo discorso, e poi ancora mentre egli aspettava di ricevere la risposta, i giovinetti rimasero muti. «Come!» gridò allora Agar, fremente di indignazione; era mai possibile che per una sorta di malintesa solidarietà essi scegliessero di proteggere quell’unico traditore che s’annidava in mezzo a loro? Finalmente i giovani principi gli risposero: «Siamo innocenti!» gridarono. «Tra di noi non c’è alcun traditore, e quindi non possiamo consegnare nessuno. In cuor suo ciascuno di noi sa che non avrebbe potuto commettere un’azione simile, e ciascuno di noi sa che nessuno degli altri ne sarebbe stato capace». A quelle parole lo sdegno e il corruccio di Agar crebbero a dismisura. Si volse verso il sovrano, e poi verso i ragazzi. Una tale ostinazione, tuonò, induceva a pensare che fossero tutti quanti complici del misfatto, e pertanto sarebbero stati giudicati dal primo all’ultimo. Ma per grazia del sovrano veniva loro concessa un’ultima possibilità di salvare la vita e l’onore. Ormai non potevano scampare alla prigione, però avrebbero avuto ancora dodici ore di tempo per prendere una decisione. Se entro quel termine il vero colpevole fosse stato consegnato nelle mani del sovrano, gli altri sarebbero stati ancora considerati innocenti; altrimenti avrebbero tutti dovuto rispondere di complicità nell’attentato.

Da un momento all’altro i giovani principi, da ospiti del sovrano, si videro trasformati in suoi prigionieri. Vennero circondati dalle guardie del corpo, disarmati e scortati in una buia cella dalle mura possenti. Appresero che sarebbero rimasti chiusi in quel luogo fino all’indomani mattina, e che comunque non tutti avrebbero avuto salva la vita.

Una volta condotti via i principi, e dopo che la folla si fu calmata, Agar si rivolse al sovrano con un sorriso, perché il suo stratagemma aveva funzionato a meraviglia. Ormai era certo che quei giovani sarebbero stati condannati alla morte collettiva, o alla discordia e all’infamia. Nella prigione c’era, soggiunse, un pertugio segreto da cui era possibile sentire tutto ciò che vi si diceva. Lui stesso vi si sarebbe nascosto e per tutta la notte avrebbe ascoltato i lamenti dei figli dei re, e soprattutto i progetti di ciascuno per salvare la propria vita e il proprio onore; poi, all’alba, si sarebbe recato nella camera del sovrano per riferirgli tutto. Subito dopo si coprì lo splendido abito di corte con un mantello nero e andò ad acquattarsi nella nicchia, pronto a cogliere ogni parola che veniva pronunziata.

Dapprincipio i giovani rimasero attoniti, quasi paralizzati, come dopo una brutta caduta, ma ben presto cominciarono a sfogare il proprio sdegno con lamenti e imprecazioni. Compresero di essere caduti in una trappola e che il loro destino era ormai deciso. Uno dopo l’altro si lagnarono della disgrazia che aveva colpito la loro stirpe e le loro genti; erano partiti pieni di orgoglio e con l’animo tranquillo, imbaldanziti dall’onore tributato loro dal sovrano, e ora, invece, alle loro madri e ai loro paesi non sarebbe giunto altro che un messaggio funesto. Infatti nessuno pensò, neppure per un attimo, di salvarsi con la menzogna, accusando uno degli altri. Avevano parlato e si erano lamentati tanto che alla fine li avvolse un silenzio carico di dolore. Si coprirono i volti e ammutolirono.

Allora una voce di fanciullo si levò in quel silenzio. Il piccolo Mira, stretto nel suo mantello di montone, si alzò dal pavimento dove si era accasciato insieme agli altri. Parlò con voce timida e come se avesse riflettuto a lungo. «Fratelli miei,» disse «è troppo doloroso che i nostri paesi debbano subire ingiustamente una perdita così grande. Se noi tutti moriremo qui, sicuramente le nostre famiglie cercheranno di vendicarsi del sovrano, e così trascineranno nella guerra e nella miseria se stesse, i nostri bei villaggi e la brava gente che ora vive in pace, pasce le greggi e canta le nostre vecchie canzoni». Non è dunque meglio che otto di noi tornino indietro e che, da amici e fratelli, scegliamo di comune accordo chi debba assumersi la colpa e affrontare la morte? Prima o poi dovremo morire tutti, ma quegli otto che torneranno a casa potranno raccontare alle nostre madri e ai nostri fratelli che il nono è rimasto qui di sua spontanea volontà, così tutti potranno ricordarlo pieni di riconoscenza».

Gli altri fissarono stupiti il ragazzo che aveva preso la parola e poi si guardarono. «Forse hai ragione, Mira» ammisero pensando alle loro famiglie lontane e alle loro terre. «Ma chi,» ripresero subito dopo «chi di noi dovremmo scegliere per consegnarlo nelle sanguinarie mani del sovrano?». Calò di nuovo il silenzio, e ancora una volta fu Mira a romperlo. «Ebbene, fratelli miei,» disse «se ho osato parlare e farvi questa proposta, io che sono il più giovane e il più sprovveduto tra tutti noi, è perché ho già riflettuto sulla questione: sono convinto, infatti, che dobbiate incolpare me e lasciarmi in questa città. Il mio paese è il più piccolo e il più povero tra i regni della montagna, e i miei genitori hanno altri figli a cui tramandare la loro dignità. Né io mi distinguo dai miei fratelli per una particolare conoscenza o perizia in qualche disciplina. So bene che mia madre mi piangerà, ma la mia morte risparmierà a molte madri della mia gente di piangere i propri figli. Le porterete il mio saluto e le consegnerete questa cintura d’argento, l’unica cosa di valore che ho con me». Così Mira terminò il suo discorso, e con la stessa timidezza con cui si era fatto avanti si ritirò verso la parete.

Frattanto gli altri giovani si erano alzati: quella possibile via d’uscita dal nodo mortale che li aveva avvinti li mise in profonda agitazione. Si guardarono l’un l’altro e alcuni si scambiarono qualche parola, ma alla fine volsero lo sguardo verso Said, che da quando erano rinchiusi nella prigione non aveva quasi aperto bocca. Era immerso in pensieri profondi, e i suoi compagni aspettarono a lungo prima che parlasse. Infine venne avanti con un portamento altero e regale, scostò il mantello d’oro e disse: «Il giovane Mira ha ragione. È meglio che uno di noi venga consegnato nelle mani del sovrano e muoia, piuttosto che vedere tante tribù libere e fiere piombare nel caos e nella catastrofe. Ma proponendoci di scegliere lui, Mira non si è certo dimostrato né sagace né sensibile alla nostra dignità. Come appariremmo, infatti, agli occhi di questa superba città, di questa ricca popolazione, di un sovrano molto potente, se gli consegnassimo il più umile di noi? Crederebbero che ci siamo accordati ed abbiamo costretto questo povero ragazzo indifeso a salvarci la vita, e così ci guadagneremmo una gran bella fama! No, ciò che offriremo al sovrano domattina sarà il meglio che abbiamo, e così potrà imparare da noi che cosa significa avere un animo regale e una morale intemerata». «Come dobbiamo intendere le tue parole, Said?» chiesero gli altri. «Non dovrebbero essere difficili da capire,» replicò Said «ma se occorre che ve le spieghi lo farò. Ho intenzione di consegnarmi nelle mani degli uomini che il sovrano manderà quaggiù. Poiché nel proprio intimo egli sa bene che siamo innocenti, in questo modo capirà anche che gli dimostriamo il nostro disprezzo per la sua meschinità, ripagandolo con la moneta più preziosa che abbiamo».

Gli altri giovani non riuscirono a nascondere la loro costernazione. «Ma come è possibile, Said!» esclamarono. «Un regno magnifico e glorioso ti attende, un esercito glorioso e valoroso è pronto sin d’ora a farti un’accoglienza trionfale, e una graziosa fanciulla già si annunzia come la tua sposa. E anche se sacrificherai tutto, come potranno mai fare a meno di te quel paese con le sue ricchezze, quell’esercito e quella vergine? I lamenti per la tua morte, Said, riecheggeranno per tutte le montagne». «Lo so bene,» rispose Said «ma io stesso porrò rimedio a questo lutto. Uno di voi prenderà il mio posto nella mia famiglia, nel mio castello, a capo del mio esercito e nel mio letto nuziale: gli affiderò ciò che è o che sarebbe diventato mio. E prendo tutti voi a testimoni di questa decisione, di modo che mio padre, mia madre, il mio esercito, i miei sudditi e la mia giovane sposa la considerino sacrosanta, e il prescelto, dall’alba di domani sino alla fine dei suoi giorni, diventi Said in tutto e per tutto agli occhi del mondo intero».

Il gruppo era di nuovo in gran subbuglio. Tutti si strinsero intorno a Said; nessuno voleva chiedere se era lui l’eletto, ma due o tre tra i più eminenti attendevano la sua decisione pieni di ansia, speranza e sgomento. Alla fine uno di essi disse: «Se questa è la tua risoluzione, Said, se vuoi acquistare con la morte il merito di aver salvato numerose stirpi, sì da farti piangere ma anche ammirare da tutti noi, chi designi dunque come tuo sostituto e come erede di tutti i doni che la vita ti aveva riservato?».

Said si voltò verso i compagni accennando un sorriso beffardo. «E me lo chiedete?» esclamò. «Non è forse ovvio, dopo quello che vi ho già detto, che il mio sostituto sarà colui che più merita di diventarlo - colui che meglio saprà montare il mio cavallo, presenziare il consiglio dei saggi, e un giorno governare con onore il mio popolo e generare con la mia sposa dei figli che possano perpetuare la mia antichissima stirpe?».

Di nuovo sui giovani calò il silenzio. «Rivelaci dunque il suo nome, Said» lo incalzarono. «Mi chiedete ancora il suo nome, fratelli delle montagne?» proruppe Said. «Allora stanotte vi si deve essere annebbiata la mente. Non sappiamo forse, nel profondo dei nostri cuori, che Mira è il più grande di tutti noi? Benchè sia il più giovane, ha osato parlare e ci ha dato un ottimo consiglio. È lui che si è offerto di dare la vita per i suoi fratelli. È forse troppo ricompensarlo con ciò che possediamo? Nei tempi a venire la mia tribù sarà onorata di poter dire che i suoi sovrani l’hanno governata così come Mira parlò nella prigione la notte del consiglio dei figli di dei re».

Prima dell’alba Agar tornò dal suo sovrano e gli riferì ciò che è appena stato narrato; infatti quei giovani non dissero molto di più. Il sovrano lo ascoltò in silenzio, quindi rifletté per qualche tempo. «Tu sei un uomo molto astuto, Agar,» disse infine «e hai dato fondo a tutta la tua scaltrezza per architettare questo piano, ma di questi popoli delle montagne proprio non t’intendi. Se i loro ragazzi parlano in questo modo quando credono che nessuno li ascolti, come credi che ci affronteranno i loro uomini quando avranno puntati addosso gli occhi del mondo? Lascia che questi giovani tornino a casa in pace: non permetterò ai miei eserciti di violare i confini dei loro territori».

 

aggiornato il 23/01/2010

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